sabato 13 febbraio 2010

Luci d'ombra


Ieri, come due anni fa, la USL della mia città mi ha invitato alla campagna di prevenzione dei tumori intestinali. E come due anni fa, dopo aver ritirato le provette per le analisi ho deciso di regalarmi un giorno di ferie e me ne sono andato a Viareggio. Ho pranzato, di fronte al porto, con la mia amica FM, ho rivisto la mia ex-collega CR e mi sono goduto una bella mostra fotografica dove ho incontrato DDV.



La mostra è un viaggio per le antiche stanze dell'ospedale psichiatrico di Maggiano. Così lo ricorda Mario Tobino (a lungo medico prima e direttore poi di questo ospedale) nel suo "Le libere donne di Magliano" (1953):
Il manicomio si erge, bastione monumentale, su una collina che s’alza dopo la discesa del monte di  Quiesa; a poche centinaia di metri scorre il fiume Serchio.
D'estate le cicale vi cantano perdutamente. È un paese rinserrato e stretto che contiene circa mille matti e trecento infermieri; non si contano gli anditi, le scale, le soffitte che ogni generazione ha sfatto e aggiunto.
La distanza dalla città di Lucca è un poco di più di sette chilometri.
Una tale congregazione produce una continua sorgente di interessi e nella campagna attorno il manicomio è guardato come un fatto che sparge abbondanza.
Questa costruzione che raccoglie i pazzi è ben concreta e quell'idea che a chi occasionalmente passa sulla via Sarzanese dà di robustezza, è la stessa che hanno i prudenti e chiusi campagnoli.
 



Le foto, esposte fino al 21 febbraio nella villa Paolina Bonaparte, sono di Giovanni Nardini, che così introduce il suo lavoro:
Da più di trent'anni con la legge Basaglia i manicomi sono stati chiusi. Anche la fotografia contribuì a denunciare le condizioni disumane in cui vivevano i malati di mente in alcune di queste strutture e dopo una lunga battaglia la legge fu approvata. Da quasi dieci anni anche gli ultimi degenti hanno abbandonato questa monumentale struttura che si erge su una collina a pochi chilometri da Lucca.
È un luogo reso celebre dai bellissimi libri di Tobino che è stato medico qua per molti anni. Ora la struttura è chiusa, quasi abbandonata, preda di vandali, di sbandati, silenziosa testimone del dolore e del mistero della follia.
Vi sono entrato con le mie macchine fotografiche, con timore, rispetto. Sapevo che oggi la fotografia doveva avere un'altra funzione, molto diversa da quella di un tempo. Non vi erano più volti trasfigurati, gesti inconsulti, nudità. Le urla si erano spente. Dopo trent'anni cosa ci faceva un fotografo in quei luoghi? Ma la fotografia si nutre di ciò che è abbandonato, niente ha più fascino che dar vita a ciò che sembra dimenticato: non è forse questo il grande potere della fotografia?
Ho attraversato lunghi corridoi ababndonati, saloni immensi, celle sporche di escrementi, ho visto mure screpolate, soffitti aperti che facevano intravedere neri solai, bagni devastati e finestre che facevano filtrare luce a illuminare poveri resti, cose abbandonate. Ho visto i volti della follia negli ultimi autoritratti abbandonati nel salone dove si svolgevano le attività di pittura, scultura ed altro.
In un silenzio scuro ho incontrato in questi luoghi tracce del dolore, della sofferenza, della follia. M'immaginavo le urla, i deliri, rivedevo personaggi descritti da Tobino, "la Campani ancora giovane, bruna, bellissimi gli occhi, la gola lupina", mi immaginavo i deliri di pazienti abbandonati all'"alga", nelle celle delle agitate, le vedevo "pisciare verso l'aria e contro il muro, defecare ridendo... ballare cantando e arruffandosi la chioma come un Bacco eccitato...".
Non vi erano più i matti eppure ogni cosa mi parlava di loro, di quel misterioso dio che viveva dentro di loro. Ho fotografato il buio del dolore, della follia. ho gettato la luce della fotografia nei resti delle vite, nei segni labili che il tempo lasciava.
Cosa resterà di Maggiano, di questo castello, che nei secoli è passato da luogo religioso a manicomio, che così tanto ha inciso nell'immaginario della gente di queste terre? In cosa lo trasformeranno gli uomini di oggi che sembrano non avere più il senso della memoria? E quelle antiche scale che sembravano portare in chissà quali inferi, scendere nell'oscuro mondo della follia, dove portreranno? Vi sarà di nuovo vita? E quale vita, chi abiterà queste mura, saprà della Clerici "che implora uguale ad un arabo" o della Berlucchi "colei che implorava senza stancarsi, acutamente, come una tragica, che l'uccidessero perché sua ogni colpa"? E cosa resterà di quelle suore che frenando in loro ogni desiderio così totalmente si donavano ai folli? Oggi in questo luogo l'urlo della pazzia è avvolto in un grande silenzio. ma la magia della fotografia è anche quella di penetrare in questo silenzio, di dare voce, seppure flebile e dimessa, frammentaria, a chi sembra non avere più parole, di cogliere quella traccia di dolore e di sofferenza che è propria di quella "misteriosa e divina manifestazione dell'uomo" che è la pazzia.

La pazzia è come le termiti
che si sono impadronite di un trave.
Questo appare intero.
Vi si poggia il piede,
e tutto fria e frana.
Follia, maledetta, misteriosa natura.
(Mario Tobino)


Anche la follia merita i suoi applausi
(Alda Merini)

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