lunedì 28 febbraio 2011

Auguri



Ieri pomeriggio abbiamo festeggiato il genetliaco di Chiara.
Invece dei soliti regali abbiamo raccolto 150 € di donazioni per Nasara.
Il gineceo si è divertito e io mi sono riempito di tartine, panini, dolci e quant'altro (degna conclusione di un week-end cominciato con le fritoe a Treviso).

 

domenica 27 febbraio 2011

Paesaggio Costituzione Cemento



Due sono, probabilmente, gli storici dell’arte più noti di oggi: il primo è Vittorio Sgarbi, il secondo è Salvatore Settis – e si tenga amente quest’affrettata antinomia, tornerà utile in seguito. Quasi si trovassero al vertice di due piramidi contrapposte, questi due volti possono apparirci come i rappresentanti, nel settore, di due Italie distinte: la prima, edonistica, gridata, che impone la sua presenza attraverso l’uso della retorica e dello strepito mediatico; la seconda, proba, autorevole, che racchiude il senso del suo lavoro nella serietà professionale, che crede nella ricerca, che ha ben chiare le radici della sua identità.
Settis ha ormai abituato i suoi lettori al tema della difesa dei beni culturali e ambientali. Paesaggio Costituzione Cemento La battaglia per l’ambiente contro il degrado civile (Einaudi «Passaggi», pp. 326, € 19,00), in perfetta continuità con i precedenti Italia SpA (2002) e Battaglie senza eroi (2005), è, prima di tutto, una denuncia della cementificazione che opprime il paesaggio italiano, delle devastazioni anche recenti della speculazione edilizia e dell’abusivismo. Lo slogan «padroni in casa propria», l’allarmante espansione degli immobili, a fronte di una scarsa crescita demografica, i ‘Piani casa’ governativi inducono lo studioso a verificare i fondamenti giuridici di tali aggressioni. Settis è uno dei pochi rimasti, fra uomini di cultura e politici, a vedere ancora nella Costituzione un punto di riferimento per il futuro della nazione e a insorgere quando la si vede minacciata. E, come dovrebbe esser noto, la tutela del paesaggio è uno dei suoi principi fondamentali: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione», recita l’articolo 9. Questo punto avanzatissimo della nostra Costituzione viene posto in linea di continuità con i precedenti disegni di legge – i più importanti recano i nomi di Rosadi (1909), Croce (1922) e Bottai (1939) –, ma l’origine della cultura giuridica in materia di tutela del paesaggio vien fatta risalire agli ordinamenti preunitari, ai provvedimenti civici medievali e sopratutto al diritto romano. È la publica utilitas che strappa dalle mani del singolo la proprietà del paesaggio o del monumento storico per consegnarla alla cittadinanza.
Seguendo il filo della nostra storia legislativa, si scopre come tale principio sia stato ostacolato dall’intricata vicenda delle competenze. La separazione giuridica di ‘paesaggio’ e ‘urbanistica’, la tutela del primo – spettante alMinistero dell’Istruzione – e della seconda, al Ministero dei Lavori Pubblici, è ad esempio il presupposto degli scempi compiuti dalla prima ondata di selvaggia industrializzazione e urbanizzazione, tra gli anni cinquanta e ottanta, nelle periferie e nelle campagne del Bel Paese. Oil conflitto fra Stato e Regioni (previste nel 1948 ma istituite nel 1970): poiché la legislazione non chiariva a chi spettasse la tutela del paesaggio, esso è stato di fatto abbandonato dall’uno e dalle altre. Nel mentre, la spinta devoluzionista della Lega Nord innesca nel legislatore la tendenza a favorire le Regioni rispetto allo Stato, in contrasto però con alcune sentenze della Corte Costituzionale, che invece sanciscono la superiorità del parere dello Stato (cioè delle Soprintendenze) in materia di tutela. Così si arriva al Codice dei beni culturali e del paesaggio, meglio noto come Codice Urbani, alla cui stesura (2004-2008, governi Berlusconi I e II e Prodi II) ha contribuito in parte lo stesso Settis. Alle Regioni spetta oggi la progettazione di piani territoriali (già previsto da Bottai e dalla legge Galasso del 1985) che mirino alla valorizzazione del territorio, alle Soprintendenze statali la tutela. Ma, sebbene le due istituzioni siano chiamate a collaborare, nessuna Regione ha mai stilato un Piano territoriale (unica eccezione: la Sardegna di Soru) e le Soprintendenze versano in un completo stato di crisi, ridotte dal governo a puri organi burocratici, senza turnover, mentre dovrebbero essere ancora le fucine delle nuove generazioni di addetti alla gestione del patrimonio.
Come tutti i discorsi autorevoli, anche questo di Settis presta realmente il fianco solo a quelle critiche che partono da fondamenta e studi altrettanto autorevoli. Da ‘destra’, invece, Settis viene facilmente accusato di conservatorismo, di opporsi alle istanze dell’economia italiana, che, come è noto, non può fare a meno del ‘mattone’ – e non per una mentalità arcaica, ma per il riciclaggio del denaro sporco! Altri potrebbero invece sentenziare che il limite estetico, con il postmodernismo, si è talmente spostato in avanti che, se i versi di Pasolini davano valore letterario al ‘paesaggio’ delle borgate e oggi i romanzi di Siti a quello delle periferie, sta accadendo, mutatis mutandis, quello stesso processo di estetizzazione – artificiale, come sempre – che, dal vedutismo a Ruskin, ha reso icastico il paesaggio italiano. Maargomentare su una di queste o altre strade, potrebbe sviarci dal centro del problema. La sostanza del discorso di Settis, che nelle pagine finali si mostra fiducioso verso l’associazionismo (Italia Nostra, Fai, etc.), le possibili iniziative di ‘azione popolare’ e di networking fra cittadini contro il degrado del paesaggio, rischia infatti di cadere, ancora una volta, nel vuoto. Settis, in breve, è solo, perché solo è stato lasciato dalla classe dirigente italiana. Una classe dirigente che, da almeno mezzo secolo, è tutt’uno con palazzinari, costruttori di autostrade, villette a schiera, hotel litoranei a cinque stelle e mafiosi che vincono appalti, non può che esser sedotta dal modello culturale ‘sgarbiano’, poiché l’ha anche creato a sua immagine – se non addirittura commissionato. Se di democrazia si può ancora parlare, oltre che con i cittadini, Settis dovrebbe dialogare, su questo tema, anche con quella minima fetta di classe dirigente che si fonda sui suoi stessi valori, sempre ammesso che ancora esista. Con chi, dai vendoliani ai democratici, è stato finora incapace di proporre un investimento nella più grande risorsa economica del paese. Che andrebbe chiaramente condotto coniugando tutela e proventi, senza la tipica vergogna di ‘sinistra’ di sentirsi ‘materialisti’, quando si parla di beni culturali. Lo scandalo è insomma che un’intera classe dirigente, priva di memoria storica e soprattutto di mentalità imprenditoriale, sposi la linea liberista nella gestione del patrimonio. Che si traduce nella programmata svendita del patrimonio (su questi temi si concentrava maggiormente Italia SpA), finalizzata a rimpinguare le disastrate casse statali, come unica e incontrastata politica dei beni culturali – e dell’avventatezza di questo atteggiamento ora si è anche accorto il duo di influenti giornalisti ‘tremontiani’ Stella- Rizzo con il nuovo, probabile bestseller Vandali, per Rizzoli.
Si arriva perciò a un classico nodo della cultura italiana: il rapporto fra intellettuali e potere. Nell’Italia di oggi, in cui sembra esserci posto solo per chi si addomestica al linguaggio mediatico in voga, Settis, in queste condizioni, non può che risultare confinato in posizione ‘marginale’: ovvero di faro della tutela che però, senza un contesto politico rispondente, rischia di non scalfire il corso degli eventi, nonostante il prestigio accademico e una visibilità mediatica garantita dalla Einaudi, da Repubblica, e ora da Che tempo che fa. Mentre il suo avversario seduce e convince l’italiano e il politico medio, con il suo modello culturale vincente, bilioso e ridanciano.

(Claudio Gulli)
 

Salvatore Settis è il padre adottivo di una compagna di asilo di mia figlia, così sono stato (alcuni anni fa) a casa sua in occasione di una festa di compleanno e ho avuto modo di conoscerlo. Quando lavoravo in centro lo vedevo spesso alla mattina tornare verso casa con un fascio di quotidiani sotto braccio. È stato uno dei migliori direttori della Normale. Famosi i suoi Venerdì del direttore dove invitatava i migliori intellettuali italiani a confrontarsi con la scuola e la cittadinanza (ricordo Saviano, Rossi Monti, Rodotà e altri, quasi tutti disponibili in streaming)

sabato 26 febbraio 2011

Ingordo di frittelle



Sono tre i motivi per cui mensilmente vado a Treviso in una giornata di tour-de-force (partenza alle 5 del mattino e ritorno alla sera tardi per un totale di 750-800 km). Il terzo motivo è legato alla golosità carnascialesca nei confronti delle fritoe veneziane, specialità culinarie che non si trovano nella regione dove abito. Quindi oggi (in meno di 7ore) ho fatto indigestione di ben 7 fritoe.

La prima (veneziana) alle 9:30 appena arrivato.
La seconda (alla crema) alle 10:00.
Quattro (veneziane) alle 14:00 come dolce (dopo aver gustato una superba faroana con la peverada).
L'ultima (la settima, alla crema) alle 16:30.

Il risultato delal mia golosità è stato un gran mal di pancia (con fitte al fegato) che mi ha tormentato nel viaggio di ritorno.

venerdì 25 febbraio 2011

I jeans che uccidono

I jeans scoloriti sono sempre stati in voga. Più ancora se molto scoloriti, dall’aspetto logoro, «invecchiati», «vintage»: mode, questione di gusti. Dunque da decenni i produttori mettono in commercio jeans già lavati, lavati «a pietra» (stone-washed). La moda vuole però che non siano scoloriti in modo uniforme ma di più in certi punti, come se consumati dall’uso. Per questo, l’ultimo ritrovato della tecnica è la sabbiatura del jeans: consiste nello sparare sabbia ad alta pressione con dei compressori ad aria, in modo da produrre un processo abrasivo che candeggia il tessuto (in inglese si chiama sandblasting, «esplodere sabbia»). Va fatto a mano, per dirigere la sabbia sui punti che si vogliono scolorire. Così però la sabbia vola. E qui non è più questione di gusti ma di diritto alla salute dei lavoratori. La sabbia infatti contiene naturalmente silice, e questa, se inalata, provoca la malattia del polmoni detta silicosi. Per questo la rete «Clean Clothes Campaign», o Campagna abiti puliti (vedi www.abitipuliti.org) ha lanciato un appello ai produttori di jeans e ai governi per eliminare la sabbiatura. L’allarme è partito dalla Turchia, dove un gran numero di fabbrichette e laboratori (caso classico di economia sommersa) producono capi d’abbigliamento per il mercato soprattutto europeo. Qui la sabbiatura si è diffusa dal 2000. Pochi anni dopo, nel 2005, per la prima volta dei medici hanno diagnosticato la silicosi in lavoratori, uomini per lo più giovani, addetti alla sabbiatura dei jeans. I morti accertati finora sono 46. Nel 2008 è nato un Comitato turco di solidarietà con i lavoratori della sabbiatura, che riunisce lavoratori, sindacalisti, medici, giornalisti: la loro campagna ha avuto effetto, perché nel 2009 il ministero della salute di Ankara ha vietato il sandblasting. Non che i problemi siano finiti: si stima che tra 8 e 10mila persone abbiano lavorato alla sabbiatura nell’ultimo decennio e tra 4 e 5.000 siano affetti da silicosi. Molti sono immigrati dall’Europa orientale; anche se turchi, molti lavoravano in nero, così ora il Comitato sta lavorando per risarcimenti e pensioni di invalidità.
La silicosi non è una novità. Di solito è associata al lavoro nelle miniere, edilisia, o alla fabbricazione di vetro e ceramica (in cui appunto si usa sabbia). Non esiste una cura nota. Si sa che è causata dall’inalazione di polveri contenenti silice libera o cristallina. E’ irreversibile, e continua a progredire anche quando l’esposizione cessa; provoca fibrosi polmonare, enfisema, nella fase finale diventare invalidante e mortale. La cosa impressionante è che nelle miniere la silicosi si manifesta dopo 20 o 30 anni. Ma esposizione più intensa significa periodo di latenza più breve. In altre parole: gli addetti alla sabbiatura dei jeans ne respirano davvero tanta di quella roba, perché gli sono bastati pochi anni, in alcuni casi appena mesi di lavoro per ammalarsi.
In Turchia dunque la sabbiatura è illegale. Nell’Unione europea è ammessa solo se gli abrasivi contengono meno dell’0,5% di silice. Ma costa meno (se non si conta la salute del lavoratore) usare la sabbia com’è, con silice attorno all’80%. Tanto la sabbiatura si fa altrove: Egitto, Giordania, Bangladesh, Pakistan, Cina, Messico.
Alcune aziende hanno risposto alla campagna Abiti puliti impegnandosi a non vendere jeans sabbiati (Lévi- Strauss, H&M, C&A). Non così Diesel, Dolce & Gabbana e Armani, marche ben note che hanno rifiutato di aprire un dialogo. Il minimo è non comprare i loro jeans.

(Marina Forti)

martedì 22 febbraio 2011

A Sanremo un uso pubblico della storia

Mi ha molto stupito il commento di Alberto Mario Banti all’intervento di Roberto Benigni al festival di Sanremo. Non che Banti non dica cose vere e condivisibili dal punto di vista storiografico, specialista qual è del nostro Risorgimento. Sarebbero state appropriate se Benigni fosse andato in una scuola o in un’aula universitaria a spiegare le guerre d’indipendenza e a fare l’esegesi di Fratelli d’Italia. Benigni ha, invece, utilizzato la tribuna (e che tribuna) del Festival per quello che gli storici chiamano da tempo «uso pubblico della storia». Ha cioè parlato della nostra storia nazionale e dei suoi luoghi della memoria, non per raccontarcela o spiegarcela (cosa che non gli compete e che non credo abbia avuto la presunzione di fare), ma per stigmatizzare il presente, lo stato agonico del paese, le spinte centrifughe della Lega e, soprattutto, per invitare gli italiani a svegliarsi, usando la nostra storia nazionale (nella quale, certo, ci sono tante cadute e infamie) come argomento. Lo ha fatto in modo intelligente, brillante e geniale come, quando gli riesce, sa fare solo lui (chi non ricorda la lezione sulla razza in La vita è bella?). Lo ha fatto con l’appello al risveglio del popolo, con le forzature allusive alla minore età di Mameli e l’esplicita lezione (questa sì) di sintassi a Bossi e ai suoi accoliti.
Di «lezione di storia» hanno parlato giornalisti e commentatori, certo non Benigni, che si è presentato dicendo di voler fare solo l’esegesi del nostro inno. Quella che può competere a un attore, un comico, un artista, che quando è grande (e lui lo è) è anche, con buona pace del dott. Forbice, anche un intellettuale. Capace cioè di radiografare quello che alberga nell’intestino di un paese e dimostrare al pubblico la lastra, illustrandola con i mezzi espressivi di cui dispone e che sono propri del suo ruolo. Solo collocando l’intervento di Benigni in un contesto diverso da quello in cui effettivamente si è svolto, acquisterebbero significato le osservazioni di Banti, che vi ha voluto vedere la manifestazione di un risorgente neo-nazionalismo, dimentico dell’internazionalismo, del pacifismo, dell’europeismo e del solidarismo proprio della cultura democratica.
Contrario come sono a ogni rivendicazione identitaria (a partire da quella nazionale), ho trovato di grande efficacia la performance di Benigni. E mi hanno fatto riflettere anche le osservazioni di Banti. Ripeto, pertinenti, ma dalla mira sbagliata. Oggi è la nostra democrazia che traballa, ma quando il mondo ci deride, è il nostro paese e i suoi abitanti, cioè gli italiani, ad essere derisi, non il nostro sistema politico. E ho trovato che l’appello di Benigni al risveglio degli italiani nel nome dell’Italia fosse indirizzato a mondare la nostra democrazia.

Alfonso Botti
Docente di Storia contemporanea
Facoltà di Lettere e filosofia
Università di Modena e Reggio Emilia

domenica 20 febbraio 2011

Dubbi su una lezione di storia

Roberto Benigni a Sanremo: ma certo, quello che voleva bene a Berlinguer! Quello che - con gentile soavità - insieme a Troisi scherzava su Fratelli d'Italia ... Che trasformazione! Sorprendente! Eh sì, giacché giovedì 17 febbraio «sul palco dell'Ariston», come si dice in queste circostanze, non ha fatto solo l'esegesi dell'Inno di Mameli. Ha fatto di più. Ha fatto un'apologia appassionata dei valori politici e morali proposti dall'Inno. E - come ha detto qualcuno - ci ha anche impartito una lezione di storia. Una «memorabile» lezione di storia, se volessimo usare il lessico del comico.
Bene. E che cosa abbiamo imparato da questa lezione di storia? Che noi italiani e italiane del 2011 discendiamo addirittura dai Romani, i quali si sono distinti per aver posseduto un esercito bellissimo, che incuteva paura a tutti. Che discendiamo anche dai combattenti della Lega lombarda (1176); dai palermitani che si sono ribellati agli angioini nel Vespro del lunedì di Pasqua del 1282; da Francesco Ferrucci, morto nel 1530 nella difesa di Firenze; e da Balilla, ragazzino che nel 1746 avvia una rivolta a Genova contro gli austriaci. Interessante. Da storico, francamente non lo sapevo. Cioè non sapevo che tutte queste persone, che ritenevo avessero combattuto per tutt'altri motivi, in realtà avessero combattuto già per la costruzione della nazione italiana. Pensavo che questa fosse la versione distorta della storia nazionale offerta dai leader e dagli intellettuali nazionalisti dell'Ottocento. E che un secolo di ricerca storica avesse mostrato l'infondatezza di tale pretesa. E invece, vedi un po' che si va a scoprire in una sola serata televisiva.
Ma c'è dell'altro. Abbiamo scoperto che tutti questi «italiani» erano buoni, sfruttati e oppressi da stranieri violenti, selvaggi e stupratori - stranieri che di volta in volta erano tedeschi, francesi, austriaci o spagnoli. E anche questa è una nozione interessante, una di quelle che cancellano in un colpo solo i sentimenti di apertura all'Europa e al mondo che hanno positivamente caratterizzato l'azione politica degli ultimi quarant'anni.
Poi abbiamo anche capito che dobbiamo sentire un brivido di emozione speciale quando, passeggiando per il Louvre o per qualche altro museo straniero, ci troviamo di fronte a un quadro, che so, di Tiziano o di Tintoretto: e questo perché quelli sono pittori «italiani» e noi, in qualche modo, discendiamo da loro. Che strano: questa mi è sembrata una nozione veramente curiosa: io mi emoziono anche di fronte alle tele di altri, di Dürer, di Goya o di Manet, per dire: che sia irriducibilmente anti-patriottico?
E infine abbiamo capito qual è il valore fondamentale che ci rende italiani e italiane, e che ci deve far amare i combattenti del Risorgimento: la mistica del sacrificio eroico, la morte data ai nemici, la morte di se stessi sull'altare della madre-patria, la militarizzazione bellicista della politica. Ecco. Da tempo sostengo che il recupero acritico del Risorgimento come mito fondativo della Repubblica italiana fa correre il rischio di rimettere in circuito valori pericolosi come sono quelli incorporati dal nazionalismo ottocentesco: l'idea della nazione come comunità di discendenza; una nazione che esiste se non ab aeterno, almeno dalla notte dei tempi; l'idea della guerra come valore fondamentale della maschilità patriottica; l'idea della comunità politica come sistema di differenze: «noi» siamo «noi» e siamo uniti, perché contrapposti a «quegli altri», gli stranieri, che sono diversi da noi, e per questo sono pericolosi per l'integrità della nostra comunità.
Ciascuna di queste idee messa nel circuito di una società com'è la nostra, attraversata da intensi processi migratori, può diventare veramente tossica: può indurre a pensare che difendere l'identità italiana implichi difendersi dagli «altri», che - in quanto diversi - sono anche pericolosi; può indurre a fantasticare di una speciale peculiarità, se non di una superiorità, della cultura italiana; invita ad avere una visione chiusa ed esclusiva della comunità politica alla quale apparteniamo; e soprattutto induce a valorizzare ideali bellici che, nel contesto attuale, mi sembrano quanto meno fuori luogo.
Ecco, con la performance di Benigni mi sembra che il rischio di una riattualizzazione del peggior nazionalismo stia diventando reale: tanto più in considerazione della reazione entusiastica che ha accolto l'esibizione del comico, quasi come se Benigni avesse detto cose che tutti avevano nel cuore da chissà quanto tempo. Ora se questi qualcuno sono i ministri La Russa o Meloni, la cosa non può sorprendere, venendo questi due politici da una militanza che ha sempre coltivato i valori nazionalisti. Ma quando a costoro si uniscono anche innumerevoli politici e commentatori di sinistra, molti dei quali anche ex comunisti, ebbene c'è da restare veramente stupefatti.
Verrebbe da chieder loro: ma che ne è stato dell'internazionalismo, del pacifismo, dell'europeismo, dell'apertura solidale che ha caratterizzato la migliore cultura democratica dei decenni passati? Perché non credo proprio che un simile bagaglio di valori sia conciliabile con queste forme di neo-nazionalismo. Con il suo lunghissimo monologo, infatti, Benigni - pur essendosi dichiarato contrario al nazionalismo - sembra in sostanza averci invitato a contrastare il nazionalismo padano rispolverando un nazionalismo italiano uguale a quello leghista nel sistema dei valori e contrario a quello solo per ciò che concerne l'area geopolitica di riferimento.
Beh, speriamo che il successo di Benigni sia il successo di una sera. Perché abbracciare la soluzione di un neo-nazionalismo italiano vorrebbe dire infilarsi dritti dritti nella più perniciosa delle culture politiche che hanno popolato la storia dell'Italia dal Risorgimento al fascismo.

Alberto Maria Banti
Professore ordinario di Storia contemporanea
Dipartimento di Storia
Università di Pisa



 

Qui un video con un intervento di Banti su "Immaginare la nazione: la formazione del discorso nazional-patriottico".

venerdì 18 febbraio 2011

Escher aveva ragione



Waterfall (October 1961).


domenica 13 febbraio 2011

Quando? Ora!

3 i fatti.

Eravamo tanti tanti.
La mia stima: qualche migliaio.
Ho orecchiato 7mila.
Non so, vedremo domai sui giornali i differenti numeri degli organizzatori
e della questura.

C'erano molti uomini.
Io pessimista me ne aspettavo un 10-20%.
Invece eravamo alla pari.

L'età media era alta.
Camminando mi giravo e mi guardavo attorno e vedevo molte rughe.
Pochi pochissimi gli studenti e i giovani.

Un uomo e una donna



E poi e poi e poi
e poi e poi
non ho più voglia di parlare
son confuso
non so neanche decifrare
questo gran rifiuto che io sento
non so se è un odio esagerato
o un grande vuoto
o addirittura un senso di sgomento
di disgusto che cresce
che aumenta ogni giorno
mi fa male tutto quello che ho intorno.

E poi e poi e poi
questo gran parlare
che mi viene addosso
bocche indaffarate,
volti da rubriche di successo
eterne discussioni
sono innocue esibizioni, ma fa effetto
questo gusto, questo sfoggio
di giocare all'uncinetto con le opinioni
sono stanco vorrei andarmene lontano
ma purtroppo mi ci invischio
ogni volta mi accanisco
è una droga, non ne posso fare a meno.
E poi e poi e poi
e poi e poi...

Ci siamo noi, un uomo e una donna
con tutte le nostre speranze, le nostre paure
che a fatica ogni giorno cerchiamo di capire
cos'è questa cosa che noi chiamiamo amore.

E poi e poi e poi
è un gran bombardamento di notizie
la vita è piena di ingiustizie
di soprusi veri
devi dare una mano
non puoi tirarti fuori
devi andare a votare, poco convinto
devi fare il tuo intervento
devi partecipare
a questo gioco di potere
sempre più meschino e scaltro
e tutto quello che io sento
è qualcos'altro è qualcos'altro.
E poi e poi e poi
e poi e poi...

Io e lei, un uomo e una donna
in cerca di una storia del tutto inventata
ma priva di ogni euforia e così concreta
che intorno a sé fa nascere la vita.

E poi e poi e poi
non saremmo più soli io e lei
finalmente coinvolti davvero
potremmo di nuovo guardare il futuro
e riparlare del mondo
non più come condanna
ma cominciando da noi
un uomo e una donna.

E riparlare del mondo
non più come condanna
ma cominciando da noi
un uomo e una donna.

venerdì 11 febbraio 2011

H3

Senza saperlo Jimi Hendrix ha vissuto a Londra nella stessa casa dove soggiornò Händel più di 200 anni prima.

Handel Hendrix House



Ieri sera sono andato a Firenze ad ascoltare Roberto Cacciapaglia in un teatro gremito.
Se Sakamoto è il Bach dei nostri tempi, allora Cacciapaglia è Beethoven.
Ho ascoltato i suoi brani ad occhi chiusi e benché sentissi i piedi saldamente ancorati al terreno, la mia testa era come una foglia sospinta in aria dalle arie delle varie composizioni.
Ascoltare la sua musica è quasi come quando si è innamorati.
L'unica differenza è che quando sono innamorato volteggio per aria anche con i piedi, e non solo con la testa.
Alla fine Cacciapaglia ha concesso 3 bis, tirati da ovazioni che sembravano non terminare mai.
Veramente molto bravo.

Se avete voglia di sentire una playlist di alcuni suoi successi cliccate qui.
Altrimenti godetevi questo Canone degli Spazi qui sotto.

domenica 6 febbraio 2011

Pancakes

Cosa si fa la domenica pomeriggio (dopo che la mattina si è vinto a volley e si sono già fatti i compiti per il lunedì)? Si decide che si prova una delle ricette dell'UNICEF. Si va a casa di là a prendere il libro. Si sceglie in macchina la ricetta più semplice. Si telefona a casa di qua per controllare gli ingredienti che già ci sono. Si va all'IperCoop a prendere quelli mancanti: 25 minuti di macchina verso l'unico supermercato aperto di domenica + altri 25 minuti di coda (forse anche il rimanente migliaio di macchine si è accumulao in un raggio di 500 metri dal supermercato per acquistare gli ingredienti di qualche altra ricetta?). Dopo aver acquistato arance, cannella, latte, zucchero a velo e cacao si torna a casa e si comincia! Ma quasi subito ci si stoppa. La ricetta è perentoria (cliccare per credere) e dice che bisogna lasciar riposare l'impasto per due ore. Dopo cena si riparte e vai! La prima frittella (prova di babbo) è un esteticamente un aborto ma si lascia manggiare. La seconda (1ª figlia) e la terza (2ª figlia) sono decisamente migliori. Ma abbiamo deciso che il succo d'arancia proprio non ci va! E dopo la terza abbiamo buttato il resto dell'impasto che avevamo tutti mal di pancia per le troppe frittelle mangiate (la ricetta secondo me era per 6-8 persone). Ma come fanno gli americani a mangiare ogni mattina queste cose?


giovedì 3 febbraio 2011

Progetto bunga-bunga

prog2011aUn docente di informatica ha dato questo progetto d'esame per il corso di Algoritmi e Strutture Dati.

  Un post apprezzabile solo (forse) dagli informatici.