venerdì 29 aprile 2011

lunedì 25 aprile 2011

Il mio 25 aprile (guschi di lumache)

Sono tornato a Sant'Anna.
Ci sono andato con P. e U.
E ho rivissuto momenti di commozione inaspettati.
Ho ascoltato Ennio Mancini e le sue brevi frasi mi hanno fatto ragionare.
Ho regalato ad U. il DVD dello spettacolo di Elisabetta Salvatori.
Qui sotto la prima parte.



Le altre 3 parti: qui, qui e qui.

Nel gennaio del 2009 scrivevo..
.

Questa sera, per rompere l'isolamento della clausura implementativa, sono andato a vedere "Scalpiccii sotto i platani" raccontato da Elisabetta Salvatori.

Il teatro Lux a Pisa è piccino e raccolto. Saranno 100 posti al massimo. Stasera eravamo in pochi. Venti, forse trenta.

E' stata la prima volta che assistevo ad uno spettacolo di Elisabetta. Elisabetta è una che fa (anche) teatro civile. Era accompagnata al violino da Matteo Ceramelli.

La storia è troppo nota e straziante per dirne ancora in queste poche righe. L'eccidio di 560 persone, in tre ore, quasi tutti bimbi, donne e vecchi è troppo doloroso.

Quindi riporto solo le cose piacevoli, le note di poesia.

Di Elisabetta a piedi nudi che racconta della luminara di Sant'Anna.

Dei lumini fatti con i gusci delle lumache raccolte dagli uomini durante l'inverno e incollate agli stipiti delle case con la calce e poi riempiti con olio e uno stoppino, accesi a creare una scia luminosa per il paese.

Delle donne chine a intrecciare fiori sugli archi della processione.

Di Aspasio che fischietta, arrivando a piedi nudi lungo l'erta salita, e racconta la storia dell'uomo nero ai bimbi prima curiosi e poi spaventati.

Dell'ultima notte felice del paese, la Notte di San Lorenzo, la notte delle stelle cadenti.



Il 22 luglio '44
San Miniato.

Il 12 agosto '44
Sant'Anna.

Un'estate terribile per la Toscana, per l'Italia tutta.





Ah... dimenticavo... Elisabetta è stata bravissima.

domenica 24 aprile 2011

Biblioteche: De Profundis?

Ci è voluto un cinico giornalista del «Financial Times» per scrivere nero su bianco quello che tutti pensano ma si guardano bene dal dire in pubblico: le biblioteche sono destinate a morire. In un lungo articolo pubblicato il 16 aprile, Christopher Caldwell ha tracciato un primo bilancio delle chiusure provocate dai tagli del governo conservatore nel Regno Unito: quattrocento biblioteche in meno. Dall’altra parte dell’Atlantico il 15 per cento delle biblioteche americane negli ultimi mesi ha ridotto l’orario di apertura, le altre cercano disperatamente aiuti privati per evitare di farlo.

Dall’osservatorio di Pittsburgh posso aggiungere che in Texas si sta discutendo un bilancio 2012 in cui i finanziamenti alle biblioteche vengono ridotti del 99%, oltre a una perdita di 8miliardi di dollari in fondi del governo federale. In Florida, il Senato ha eliminato il 100% dei contributi alle biblioteche, il che provocherà anche una perdita di finanziamenti del governo federale, che sono legati a un certo livello dei servizi. In California il bilancio è ancora nel caos e difficilmente i servizi culturali saranno risparmiati.

In competizione con i pompieri
Un’eccezione c’è: la Pennsylvania, dove i finanziamenti dello Stato non calano: l’anno prossimo il Public Library Subsidy rimarrà allo stesso livello del 2011 (53,5 milioni di dollari) al contrario di molti servizi essenziali, come l’università, i trasporti pubblici o la difesa dell’ambiente, che il nuovo governatore repubblicano Tom Corbett ha tagliato senza esitare. Secondo «American Libraries», 19 stati su 50 hanno ridotto i fondi per le biblioteche (e dieci hanno fatto tagli superiori al 10%).

Il «Financial Times» spiega che le biblioteche non attraversano una crisi passeggera ma una fase in cui la loro stessa esistenza è in dubbio. La ragione è semplice: in quanto istituzioni finanziate dai governi locali esse devono subire le conseguenze di una crisi fiscale che non è contingente. Tutti i governi occidentali hanno bilanci pesantemente in rosso e inGran Bretagna come negli Stati Uniti, ridurre la spesa pubblica è diventato una priorità. Né Cameron né Obama vogliono (o possono) aumentare le tasse, quindi possono soltanto tagliare le spese e non saranno certo quelle militari a essere ridotte, almeno nel breve periodo.

Tra le spese non militari, le biblioteche devono competere con servizi sanitari sempre più costosi e con un sistema pensionistico squilibrato per ragioni demografiche (in futuro ci saranno più pensionati che lavoratori attivi). La crisi continua a mantenere elevate le spese di assistenza ai disoccupati e ai poveri e – sottolinea Caldwell – negli Stati Uniti «le spese locali per il welfare sono spesso obbligatorie per legge mente le spese per le biblioteche sono discrezionali».

La fine della transizione
L’autore dell’articolo va oltre: «Le biblioteche appartengono a un periodo di transizione alla fine del XIX secolo, dopo l’affermazione della democrazia ma prima della crescita del welfare state. Le biblioteche facevano da ponte fra il vecchio stile di governo e il nuovo». Oggi questo periodo di transizione è finito da un pezzo e la biblioteca, come molti altri settori dello stato sociale, potrebbe soccombere alla crisi fiscale.

Esse sono vulnerabili anche perché, al contrario della sanità o della scuola, servono una minoranza della popolazione. Non ci sono famiglie escluse dal servizio sanitario in Gran Bretagna, né famiglie che rinuncino all’istruzione obbligatoria negli Stati Uniti (con modeste eccezioni legate a convinzioni religiose). Le biblioteche, invece, vengono frequentate da circa un terzo dei cittadini in Inghilterra e, in America, il 58% degli adulti sostiene di avere la tessera della bibliotecama questo naturalmente non significa che poi ci si vada davvero. Gli enti locali devono decidere se tagliare servizi che semplicemente sono irrinunciabili, come i pompieri o la polizia, oppure sacrificare una istituzione utile solo a una minoranza: non è difficile immaginare quali saranno le scelte.

Studenti in difficoltà
Implicita in questa discussione, ma mai affrontata è la questione di un’altra fase di transizione che le biblioteche hanno estrema difficoltà a gestire. Si tratta della fase iniziata alla fine del ventesimo secolo con la prepotente affermazione delle tecnologie di comunicazione individualizzate. Il computer portatile, il telefonino, ora l’iPad non potevano che generare la sensazione che la fase in cui le biblioteche facevano da ponte fra la cultura accumulata nei secoli e il singolo utente fosse finita. Su questo, qualche riflessione più approfondita sarebbe utile.

I bibliotecari sostengono che le biblioteche sono un servizio necessario per la comunità e nessuno studioso serio lo nega ma i politici, almeno in questi anni tristi, sono indifferenti a ogni ragionamento che vada al di là della prossima scadenza elettorale. Se proprio devono pensarci, diranno che nell’era degli smart phone, del Kindle e dell’iPad nessuno ha veramente bisogno della biblioteca. Magari potranno anche riconoscere che sono molto utili per i pensionati, i disoccupati e gli immigrati ma i primi possono andare a leggere il giornale al bar, i secondi si accontentino di non morire di fame e gli ultimi prima se ne vanno e meglio è.

Non ci sono buoni argomenti che possano convincere cattivi politici a fare ciò che dovrebbero, ma i cittadini hanno varie buone ragioni per mobilitarsi in difesa delle biblioteche, a cominciare proprio da quei grandi utilizzatori di smart phone, di Kindle e di iPad che sono gli studenti universitari. Unrapporto di qualche anno fa sulla loro capacità di fare ricerche su internet finalizzate allo studio e non all’intrattenimento dava risultati poco entusiasmanti: solo il 52% era in grado di valutare correttamente l’obiettività di un sito web, solo il 65% il suo grado di autorevolezza. In altre parole, moltissimi giovani, forse la maggioranza, non sono in grado di distinguere il valore dei materiali di Wikipedia da quello delle pubblicazioni dell’università di Harvard, né sono capaci di trovare ciò che è utile per capire situazioni complesse o problemi politici con i quali non hanno familiarità.

Questo significa che, in assenza di ambienti culturali collettivi che offrano aiuto e guida, le straordinarie possibilità di ricerca offerte dalla rete resteranno delle possibilità, quando non aggraveranno la confusione per l’eccesso di stimoli non filtrati. I gadget elettronici non sono un sostituto né della scuola né della biblioteca.

Confronto tra cittadini
Questa linea di ragionamento, tuttavia, rimane ancora nell’ambito ristretto di una valutazione economicista dell’utilità sociale della biblioteca: se non si vuole che i giovani crescano troppo ignoranti, e quindi incapaci di competere sul mercato mondiale, occorre fornire almeno dei servizi culturali minimi, tra cui le biblioteche. C’è una ragione ben più sostanziale da mettere al centro del dibattito: come scriveva la bibliotecaria Eleanor Jo Rodger in un saggio del 2009, le biblioteche sono una irrinunciabile «infrastruttura democratica» e questo è il motivo per cui Andrew Carnegie spese la sua fortuna personale per costruirne ovunque.
Il problema non è se i cittadini ci vadano o no: è che devono avere la possibilità di andarci. Non c’è teoria moderna della democrazia che ammetta un cittadino disinformato e ignorante. Una biblioteca arricchisce il tessuto democratico rendendo possibile ai cittadini di informarsi non nella solitudine di un computer casalingo ma in un confronto con altri cittadini, altri documenti, altri formati. Di questo lavoro incessante le biblioteche sono un luogo necessario. Anche se ci si va soltanto per leggere la «Pittsburgh Post Gazette» o il «Resto del Carlino».
 

(Antonella Agnoli) 

mercoledì 20 aprile 2011

Oceania 1 - Europa B 16




...
Y así como todo cambia
Que yo cambie no es extraño
...

domenica 17 aprile 2011

Pollo al limone (wok, riso thai, 5 spezie e altro...)


2 agosto 2009

Me l'ha proposto la Ina ed era veramente una bontà.
Siccome ha usato wok, riso thai e spezie (tutto presente nella vostra cucina) ho pensato che magari (se già non la conoscete) potevate provarlo anche tu e Lorenzo.
Così mi sono fatto dare la ricetta.

Pollo al limone (x 4 persone)

Petti di pollo passati in un composto di farina, sale, pepe, 2 cucchiaini di "5 spezie"(*).
Si passano nel wok con olio caldo (semi), prima lato con pelle fino a che è croccante e poi l'altro.
Si scolano e si mettono in teglia in forno a 180° x 1h.

Salsa (da cuocere): ginger fresco a listarelle + 2 limoni a pezzi (quarti) con olio di oliva + 1 bicchiere di sherry (marsala) secco, 1/2 bicchiere di miele, 2 cucchiai di salsa di soia + 2 cucchiai di maizena per addensare, sale e pepe.

Si tagliano i petti a fettine sbieghe e si aggiunge sopra la salsa (a pezzettoni).

Si accompagna con riso thai.

(*) Se non si trova nessuno che venda le "5 spezie" allora si fanno con polvere di semi di finocchio, anice, coriandolo, cumino, cannella.




Nota 1. Tra le feature di gmail c'è anche il folder Draft che contiene le mail che hai cominciato a scrivere e che non hai ancora inviato. Questa qui sopra è dell'agosto 2009. Scritta velocemente al computer e poi non più inviata. Bisogna guardare avanti.


Nota 2. Una simpaticissima signora mi ha confidato che quando si comincia un blog di ricette si è oramai arrivati all'ultima spiaggia. Questo estemporaneo post non significa che ho oramai imboccato questa strada. Chi ben mi conosce sa che io e la cucina non andiamo d'accordo.


giovedì 14 aprile 2011

Il sogno di stanotte di C.

È scoppiata la IIIª guerra mondiale tra Italia e la Libia.
Sta vincendo la Libia che ha invaso l'Italia.
Gheddafi ha ucciso la mamma, il papà e anche A.
E Gheddafi sfida C. a un duello con le spade e la uccide.
Ma il sogno di C. a questo punto non finisce, anche se lei è morta, ma continua con le altre persone...

mercoledì 13 aprile 2011

So lovely was the loneliness




In youth's spring, it was my lot
To haunt of the wide earth a spot
To which I could not love the less
So lovely was the loneliness
Of a wild lake, with black rock bound
And the tall trees that towered around

But when the night had thrown her pall
Upon that spot as upon all
And the wind would pass me by
In its stilly melody

My infant spirit would awake
To the terror of the lone lake
My infant spirit would awake
To the terror of the lone lake

Yet that terror was not fright
But a tremulous delight
And a feeling undefined
Springing from a darkened mind
Death was in that poisoned wave
And in its gulf a fitting grave
For him who thence could solace bring
To his dark imagining
Whose wildering thought could even make
An Eden of that dim lake

But when the night had thrown her pall
Upon that spot as upon all
And the wind would pass me by
In its stilly melody

My infant spirit would awake
To the terror of the lone lake
My infant spirit would awake
To the terror of the lone lake

Springing from a darkened mind
So lovely was the loneliness
In youth's spring, it was my lot
In its stilly melody
An Eden of that dim lake
An Eden of that dim lake
Lone, lone, lonely...

(Antony And The Johnsons)

domenica 10 aprile 2011

Questi ragazzi hanno dei sorrisi bellissimi!




Prosegue l'attività onirica

Nelle ultime tre notti ho continuato a sognare, anche se il primo più che un sogno è stato un incubo.

1. Ho accompagnato mio padre ad un esame medico. Lo ho lasciato in studio e ho preso la macchina per andare a fare delle commissioni in città. Guidavo con gli occhiali da sole. Mi ha fermato un vigile perché secondo lui era illegale guidare con gli occhiali scuri. Mi ha detto di seguirlo e con la macchina a passo d'uomo lo ho seguito dentro le stanze di un grande castello. Le stanze via via si rimpicciolivano sempre di più e le varie porte non erano tutte allineate così che con l'auto dovevo fare delle difficili manovre pe passare da una stanza all'altra. Finalmente siamo arrivati in un salone dove il vigile è scomparso e dove altre persone mi hanno detto che l'infrazione contestata dal vigile non era legale. Arrivato a quel punto io ero bloccato dentro il castello con la macchina e non sapevo più che strada fare per uscire. Si era fatto tardi e sapevo che mio padre stava finendo l'esame e sarebbe stato solo, senza di me. Mi agitavo sempre di più, disperato di non poter uscire dal castello e non poter ragiungere mio padre.

Mi sono svegliato e ho notato che il mio corpo reale rifletteva le stesse emozioni di me nel sogno. Avevo il cuore che andava all'impazzata e mi giravo velocemente a sinistra e a destra cercando una via d'uscita.

2. Un tranquillo sogno con ET, di cui ricordo poco, se non il fatto che io e ET eravamo d'accordo su tutto.

3. La mia amica LM sta facendo un test per controllare se è incinta. Io sono convinto di sì, che non c'è neppure motivo di fare questo controllo, che è ovvio che è incinta. Dopo il risultato positivo del test, che comunque non ha sorpreso LM più di tanto, lei si sta domandando di chi sià quel figlio. Io, dentro di me, conosco l'ovvia risposta ma lei, per niente turbata, fa un altro test (questo qui possibile solo nel mondo dei sogni) per sapere la paternità del bimbo che ha in grembo e scopre che sono io. Anche adesso non è turbata.

La sveglia (messa per ricordarmi e aver tempo di stirare, l'attività che più odio dell'universo) ha interrotto il sogno e così non saprò mai come finirà questa storia.

sabato 9 aprile 2011

La bohème


Je vous parle d'un temps,
Que les moins de vingt ans,
Ne peuvent pas connaître,
Montmartre en ce temps là,
Accrochait ses lilas,
Jusque sous nos fenêtres,
Et si l'humble garni,
Qui nous servait de lit,
Ne payait pas de mine,
C'est là qu'on s'est connu,
Moi qui criait famine et toi,
Qui posait nue,

La Bohème, la Bohème,
Ca voulait dire, on est heureux,
La Bohème, la Bohème,
Nous ne mangions,
Qu'un jour sur deux.

Dans les cafés voisins,
Nous étions quelques uns,
Qui attendions la gloire,
Et bien que miséreux,
Avec le ventre creux,
Nous ne cessions d'y croire,
Et quand quelques bistrots,
Contre un bon repas chaud,
Nous prenaient une toile,
Nous récitions des vers,
Grouppés autour du poêle,
En oubliant l'hiver.

La Bohème, la Bohème,
Ca voulait dire,
Tu es jolie,
La Bohème, la Bohème,
Et nous avions tous du génie.
Souvent il m'arrivait,
Devant mon chevalet,
De passer des nuits blanches,
Retouchant le dessin,
De la ligne d'un sein,
Du galbe d'une hanche,
Et ce n'est qu'au matin,
L'on s'asseyait enfin,
Devant un café crème,
Epuisés, mais ravis,
Faut-il bien que l'on s'aime,
Et que l'on aime la vie.

La Bohème, la Bohème,
Ca voulait dire, on a vingt ans,
La Bohème, la Bohème,
Et nous vivions
de l'air du temps.

Quant au hasard des jours,
Je m'en vais faire un tour,
A mon ancienne adresse,
Je ne reconnais plus,
Ni les murs, ni les rues,
Qu'y ont vus ma jeunesse,
En haut d'un escalier,
Je cherche l'atelier dont plus rien ne subsiste,
Dans son nouveau décor,
Momtmartre semble triste,
Et les lilas sont morts.


La Bohème, la Bohème,
On était jeunes,
On était fous,
La Bohème, la Bohème,
Ca ne veut plus rien dire du tout.

Piaceva tantissimo a mio padre.




Mercoledì 13, nell'ambito della rassegna Suona Francese (un grande festival di oltre 150 eventi in numerose città italiane, organizzato dall'Ambasciata di Francia, dall’Accademia di Santa Cecilia e da altre istituzioni e in programmazione sino a giugno) si esibirà all'Auditorium di Roma Charles Aznavour, che tra poco più di un mese compirà ottantasette anni. Aznavour è, insieme con Juliette Gréco, l'ultimo grande rappresentante che ci resta di quella straordinaria stagione della canzone francese apertasi nell'immediato secondo dopoguerra quando il clima esistenzialista che dominava in Francia, le lotte sociali, il ricordo dell'occupazione nazista e alcuni cambiamenti nel costume favorirono l'emergere di tematiche nuove nella canzone: alfieri di questa «rivoluzione», che sotto il profilo musicale e scenico portava a compimento le sedimentazioni di una lunga tradizione espressiva sviluppatasi nell'arco di un secolo, furono una schiera di eccezionali figure come Ives Montand, Léo Ferré, Georges Brassens, Jacques Brel, Gilbert Bécaud, Boris Vian, Serge Gainsbourg (e, tra le donne, la menzionata Juliette Gréco affermatasi accanto alla già popolare Edith Piaf) che proseguirono l'opera di modernizzazione iniziata da Maurice Chevalier, Mistinguett e Charles Trenet. Quell'irripetibile momento storico si concluse più o meno verso la fine degli anni Settanta, dopo il grande successo della canzone impegnata sull'onda del '68, con la scomparsa di alcuni dei protagonisti (Brel nel '78, Brassens nell'81) e la definitiva trasformazione della scena musicale sotto la pressione del rock e della canzone d'autore statunitense. Rispetto agli autori «engagés» come Brassens o Ferré, Charles Aznavour è stato però spesso visto comeun personaggio sostanzialmente estraneo a quella tradizione, un autore commerciale, un cantante confidenziale alla Sinatra, oltre che un oculato amministratore del proprio talento. In realtà Aznavour è molto più di tutto questo e merita sicuramente una riconsiderazione critica che lo riporti al posto che gli spetta nella storia della canzone d'oltralpe. Nato a Parigi da famiglia di origine armena (si chiama in realtà Charles Aznavourian), cresciuto ascoltando sia le canzoni dell'epoca trasmesse dalla radio che quelle della propria comunità che si riuniva nel ristorante gestito dal padre, appassionato di musica e cantante occasionale, l'artista francese è innanzitutto lo chansonnier che, più di ogni altro, ha puntato fin dall'inizio sul mercato estero oltre che su quello interno: registrando in molte lingue straniere e sottoponendosi a lunghe ed estenuanti tournée internazionali nella sua lunghissima carriera egli è senz'altro diventato, rivaleggiando forse con la sola Edith Piaf, il cantante francese più noto al mondo. La scelta di lavorare molto anche all'estero è stata decisamente opposta a quella della maggioranza dei suoi colleghi, che si sono quasi sempre accontentati del mercato francofono (o, al massimo, di quello di paesi limitrofi come Italia e Spagna), e lo ha indotto nel tempo, al fine di ampliare costantemente il suo pubblico, a soluzioni musicali «mainstream» e tarate sul gusto prevalente del paese in cui i suoi dischi sarebbero usciti, con l'ingombrante presenza di orchestrazioni ridondanti e l'innesto non sempre felice di sonorità derivate da quella che allora veniva chiamata musica «leggera». Le sue prime composizioni lasciano invece intravedere una notevole capacità nella costruzione di canzoni perfettamente in linea con quelle dei suoi colleghi e funzionali a valorizzare la sua particolare vocalità tramite l'uso intelligente di stilemi ritmici di tipo jazzistico o richiami alle musiche popolaresche urbane. Come per molti cantanti venuti alla ribalta nel secondo dopoguerra, agli inizi della sua carriera il problema era una voce che non corrispondeva ai canoni allora in voga, ancora legati a criteri di immediata gradevolezza: gli si rimproverava, insomma, di voler interpretare canzoni che sarebbe stato bene far cantare ad altri (erano quelli, ricordiamolo, anni che dal punto di vista musicale coincisero con la progressiva legittimazione della vocalità «naturale », cioè non educata, finalmente accettata dal pubblico di massa grazie proprio a quegli interpreti che seppero imporla nella canzone popolare). La tenacia dello chansonnier e il suo grande successo fecero sì che questi giudizi fossero in seguito completamente rovesciati, fino a che i critici scrissero addirittura che le sue canzoni non avrebbero potuto essere eseguite che da lui stesso, cioè da quella voce caratterizzata da una «cavernosa raucedine» e «ricca di tonalità tragiche», come scrisse Ives Salgues (che curò la raccolta dei suoi testi in un volume della serie Poètes d'aujourd'hui, la prestigiosa collana creata nel 1944 dall'editore Seghers). Aznavour fu inizialmente apprezzato soprattutto negli ambienti bohèmien del Quartiere Latino, che videro in lui il cantore dell'inquietudine esistenziale e del sarcasmo contro il perbenismo e i suoi rituali come in Je hais les dimanches, un pezzo degli anni Cinquanta (ma le prime canzoni sono difficili da datare con precisione) e di un nuovo modo di pensare l'amore in un rinnovato clima culturale, che consentiva all'erotismo e alla sensualità di cominciare a circolare più liberamente nella canzone come già accadeva nel cinema e nella letteratura. I testi delle sue composizioni dunque, forse davvero come quelli di nessun altro, possiedono un'eccezionale capacità di raccontare la passione amorosa e i dubbi, le inquietudini, le incomprensioni e le lacerazioni del rapporto di coppia con un linguaggio scabro e franco, ricco di immagini e che, pur impiegando prevalentemente parole di uso corrente, non è privo di momenti di autentica poesia: «Non desideravo, ma proprio per nulla, - ricorda in un suo libro autobiografico (A bassa voce, pubblicato anche in Italia) - scrivere delle canzoni nello stile di quelle che ascoltavo alla radio. Questo non significava che non le apprezzassi, al contrario. Ma ciò che mi importava era raccontare la vita come la vedevo attorno a me, senza fiorettature, senza abbellimenti di versi alessandrini. Non avevo la pretesa di essere un poeta». In brani come Je veux te dire adieu, per esempio, la fine di un amore è esplicitamente associata alla percezione del godimento dell'ex amante tra le braccia di un altro uomo, mentre, in Mourir d'aimer, il dolore di una separazione viene vissuto come baratro esistenziale («Le pareti della mia vita sono lisce/mi ci aggrappo ma scivolo lentamente verso il mio destino/morire d'amore»). Aznavour ha cantato anche, specialmente ai suoi inizi, il mondo dei marginali, quello delle bische di poker e della Parigi che vive ai margini della legalità, come in Moi j'fais mon rond,ma una sua costante fonte di ispirazione è stata la vita degli artisti, in genere mostrata nei suoi aspetti duri e difficili ma allo stesso tempo ammalianti. Così, nel quadretto de Les comediens, si ricorda la fatica degli attori da baraccone, ma anche l'incanto che provocavano nelle piazze di paese o di periferia, e l'ironica Je m'voyais déjà è dedicata alle illusioni di chi pensa di sfondare facilmente nel mondo dello spettacolo («Mi vedevo già raccontare la mai vita/l'aria annoiata, a dilettanti avidi di consigli»). La struggente e celeberrima La bohème, invece, descrive le difficoltà a tirare avanti di un giovane pittore di Montmartre e della sua compagna, intrecciandole a una denuncia delle mutazioni urbanistiche di Parigi che cancellano i luoghi della vecchia città.Uomo curioso e riflessivo, attento e appassionato lettore, artista a tutto tondo (oltre all'attività musicale, si calcola che abbia scritto più di mille canzoni, ha lavorato in teatro e girato molti film con registi come Jean Cocteau, René Clair, François Truffaut, Claude Lelouch) Aznavour si è impegnato costantemente per l'Armenia a partire dal 1988, quando un disastroso terremoto colpì la regione causando decine di migliaia di vittime.

(Giovanni Vacca)

giovedì 7 aprile 2011

Livelli onirici



Livello 0
.
Questa notte mi sono svegliato e ho poltrito una oretta a letto gustandomi un bellissimo e dettagliato sogno a più livelli. I due livelli erano ben nitidi e potevo rammentare e saltare da ogni livello a quello annidato. Avrei voluto telefonare ad ET e raccontarglielo ma ET non sopporta di essere svegliata (nemmeno da un SMS) in mezzo alla notte. Così invece lo scrivo.

Livello 1.
Sono stanco. Dopo essere tornato da Milano, dove sono andato in macchina a trovare la mia mamma, ho dormito un po' per la stanchezza. Durante il sonno ho sognato, ma adesso che mi sono svegliato mi aggiro a piedi e in auto per una città che dovrebbe essere Pisa, ma è piena di canali come Treviso o Venezia. Finalmente entro in una osteria per riposarmi e mangiare qualcosa. L'osteria è piena. Appendo il cappotto ad un appendiabiti che scorre lungo la paerete e aspetto che si liberi qualche tavolo. Quando mi rendo conto che si libera un tavolo mi accorgo che quel locale è il Numero 11. Mi accomodo al tavolo e la cameriera che serve mi si avvicina. Vedo che si tratta di ET. Sono contentissimo di averla vista e mi metto a chiaccherare con lei, che smette di servire ai tavoli e invece si accomoda con me al tavolo. Le racconto tutto eccitato e contento che la avevo appena sognata.

Livello 2.
Sono andato a (o forse sono appena tornato da) Milano dove, oltre che vedere mia mamma ho anche incontrato ET.
ET ascolta volentieri il mio sogno, ma non è poi così tanto meravigliata dal fatto che appena dopo averla sognato io la veda nella realtà e glielo possa raccontare. Mentre chiaccheriamo ci saluta un avventore che sta uscendo. Si tratta di XX, un mio collega di lavoro, e quando lui apre la porta per uscire Et mi fa notare che zoppica un po' ma che si riprenderà.
Ieri mia figlia non è andata a scuola ed è rimasta a casa perché zoppicava e non riusciva a camminare dato che la sera prima, durante la lezione di ginnastica artistica, si era presa una dolorosa distorsione alla caviglia durante un volteggio.

lunedì 4 aprile 2011

Niente zabaione a Milano

Sabato mi sono svegliato alle 3 e ½ del mattino. Avevo appena sognato la mia amica LM che faceva Alice nel Paese delle Meraviglie tra i puffi e il gatto Birba (ma Birba, a differenza di quello di Peyo) non cercava di mangiarsi i puffi, ma giocava con loro e con la L.

Influenze fumettistiche?

Sì, forse pecrhé di lì a poco sarei partito per Milano per visitare il cosidetto Museo del Fumetto inaugurato il giorno prima dalla Moratti. Non sapevo cosa aspettarmi, ma le mie aspettative erano elevate. Invece ho trovato solo uno spazio vuoto da riempire e una mostra (al piano superiore) dedicata agli editori fumettisti milanesi. Milanesi? Sì, solo milanesi! La mostra non mi ha entusiasmato granché. C'erano mischiate alcune copertine originali di giornali storici con alcune tavole di alcuni autori (solo milanesi anche quelli? mah! chissà!). Insomma nulla di eclatante o, comunque, degno di nota. Una delle tavole esposte era di una storia di Cimpellin e della stessa storia io possiedo un'altra tavola appesa nel bagno di casa mia. Forse potrei invitare il sindaco della mia città ad inaugurare un Museo del Fumetto anche nel bagno di casa mia!

Una gigantografia di Nonna Abelarda mi ha anche rammentato di quando, 20 anni fa, mi ero erroneamente complimentato con Cavazzano per come aveva ben disegnato il "braccio di ferro in gonnella" italiano. Solo che Cavazzano non lo aveva mai disegnato (Nonna Abelarda è stata principalmente tratteggiata da Carpi, Gatto e altri). Comunque Giorgio non se la prese e, anzi, mi inviò anche un suo schizzo autografo con  Paperino che ronfa in poltrona (e qusto non è appeso in bagno con Cimpellin, bensì in cucina!)

Terminata in 28 minuti la visita di questo cosiddetto Museo, ne ho approfittato per andare a piedi verso il centro di Milano. C'era un tremendo caldo estivo (alla sera alle 21:00 il termomemetro esterno della mia auto segnava 21°C) e in mezz'ora ho raggiunto il duomo. Ho passeggiato un po', passando anche davanti al negozio di calzature Gusella e mi sono rammentato di quando lì ho comperato delle babbucce per un bimbo che quest'anno compie 30 anni! Ho sorriso tra me e me pensando a quegli anni e avrei voluto rivivere quei  brevi istanti di deja-vù con una persona a cui voglio molto bene.

Poi mi sono avviato verso il Museo del '900 in piazza del Duomo e lì, finalmente, la giornata milanese ha acquistato significato e bellezza. Per soli 5 EUR (con ingressi contingentati attraverso un biglietto d'ingresso dotato di chip RFID) ho goduto per due ore gustandomi un centinaio di opere veramente veramente belle. Non so quasi nulla d'arte (così come non mi intendo di fumetti) ma posso garantire che le opere che ho visto al palazzo dell'Arengario sono stupende. Via via che passavo nelle varie sale mi sono segnato quelle che mi hanno toccato di più.

Balla. Costellazioni del genio.
Marinetti. Scatole d'amore in conserva.
Severini. Bohemien jouant de l'accordeon.
De Chirico. Le trouble du philosophe.
Martini. La sete.
Carla Accardi. Grande integrazione.
Carla Badiali. Composizione in verde.




L'unico artista che proprio non mi ha detto nulla è stato Fontana. Proprio non lo capisco. Le sue opere proprio non mettono in vibrazione neppure una cellula del mio essere. Tra l'altro le sue opere sono esposte in una bellissima sala che ha un'enorme vetrata che dà sulla piazza del duomo. E tra Balla da una parte e il duomo dall'altra non c'è assolutamente gara. È come sparare sulla Croce Rossa. Troppo bello il duomo "pirolo" che mi ricorda di quando, bambino, sulle spiagge di Jesolo o di Lignano Sabbiadoro costruivo i miei duomi "piroli" facendo colare la sabbia bagnata dalle mani chiuse.

Uscendo dalla mostra ho visto anche una bella foto di Harry Callahan: Trees in snow. Era l'anticipazione della mostra che sarà aperta in autunno presentando molte delle foto del Museum of Fine Arts of Boston. Non dovrò mancarla.

Uscito dal Museo del '900 ho passato il resto della serata conoscendo e chiaccherando con una veneziana che, pur abitando a Roma, era di passaggio per Milano. Con lei, che pure non conoscevo, ho trascorso quasi due ore chiaccherando di condivisi amori giovanili di carta, di cani con le treccine, di cavolini di Bruxelles e... il tempo è volato via!