domenica 28 ottobre 2012

Amour - Una sconfinata giovinezza


Ieri ho visto Amour (di Michael Haneke, 2012).
Mi ha ricordato, per certi versi, Una Sconfinata giovinezza (di Pupi Avati, 2010).
Entrambi molto belli.
Entrambi hanno risvegliato in me emozioni sopite (messe a tacere da un inconscio che cerca di farmi sopravvivere nel day-by-day).
Entrambi i titoli sono significativi.



Cosa distingue, oggi e proprio oggi, un artista dalla pletora di “creativi” che ci affligge in tutti i campi dell’espressione, con il loro rimasticare il già detto e troppo detto – varianti di varianti di varianti, echi di echi di echi – o la pretesa di un “nuovo” che è poi il mercantile kitsch dell’epoca, il trash dello zeitgeist più pretenzioso e saccente? Direi la profondità, e cioè la ricerca che il lettore o spettatore o ascoltatore appena esigente non può non condividere, della “verità morale”, così come l’hanno intesa i maggiori artisti di sempre. Se c’è questo, le scelte che ciascun artista compie per esprimerla possono anche risultare secondarie.
Ma è questo che la società dei consumi trascura o mistifica, e quando qualcuno sembra mirarvi, la indirizza e ricatta per farne “comunicazione” e “narrazione” e renderla digeribile alle masse (da loro acquistabile) e, se non alle masse, alle schiere formate dalle corporazioni consolidate, ai poteri e sottopoteri del settore al cui centro sono i mediatori e comunicatori dei molti mezzi, nella cui area o scia operano anche gli artisti che hanno qualche talento, ma facilmente addomesticabile. La distinzione tra il nefasto, il superfluo e il necessario riguarda o dovrebbe riguardare ogni campo dell’attività umana, ma l’espressione artistica più di ogni altro.
Michael Haneke si è affermato con film molto duri, che all’inizio ci sembrarono perfino eccessivi e dubbi perché sembrava volessero disturbare per partito preso. Ma subito, con film come La pianista, Caché o II nastro bianco, si comprese che il suo era un modo serissimo di considerare il cinema e di richiedere al pubblico di attenzione e di serietà pari ai suoi. Con Amour, straziante agonia di due vecchi cultori di musica minuziosamente evocata, una coppia borghese schiva, banale e perfino noiosa, gli sarebbe stato facile non solo vincere premi ma anche commuovere vaste platee, tanto il problema della vecchiaia è comune, ma si direbbe che dell’esito del suo lavoro egli si sia dimenticato per cercare il massimo di verità e di rispetto che il soggetto esigeva. Pochi film hanno saputo rappresentare la vecchiaia con pari forza -dei giapponesi Kinoshita, Ozu, Kurosawa, di McCarey, di De Sica – ma forse nessuno ha saputo rappresentare in cinema l’umana corruzione dei corpi (the way of all flesh), il progressivo annientamento di ogni energia, la sudditanza alla malattia, con l’attenzione di Haneke. E di raccontare infine la scelta di non più tollerare il dolore della persona amata e il proprio dolore.
Dentro una scena quasi unica – un appartamento – e con pochi personaggi di contorno – una figlia, un allievo, una coppia di portinai, un medico, una o due badanti … – assistiamo a questa decadenza e diciamo pure a quest’agonia, come a qualcosa che tutti conosciamo bene, anche chi ne è ancora biologicamente lontano, ma che nessuno aveva ancora osato rappresentare con questa precisione, con questa crudele partecipazione. Crudele? Sì, se s’intende con crudele non il compiacimento per i modi in cui il male e i limiti dell’umano ci si mostrano, ma la necessità di andare a fondo, di rappresentare il vero per ricavarne una morale primaria, la più essenziale di tutte, che Haneke esprime a parole soltanto nella parolina del titolo: Amour. L’amore come unione di due anime e corpi, e l’insostenibile fatica di accettare che uno dei due si degradi e si allontani, che la comune biologia ce lo allontani, ma anche l’amore come caritas, dedizione all’altro, a un prossimo che in questo caso è diventato -per il mistero dell’amore – il prossimo più prossimo di tutti.
Assistito da Jean-Louis Trintignant e da Emmanuelle Riva, due attori coraggiosi e decisi come il regista ad andare fino in fondo nella rappresentazione della vecchiaia e della morte, del confronto con la morte – perché non più attori o non solo attori ma soprattutto vecchi che in quanto tali, anche oltre il loro stesso decadimento, hanno dovuto confrontarsi con la vecchiaia altrui e con il dolore -Haneke ha realizzato un film che vanifica le parole, che impone allo spettatore (e al critico) un rispetto che va oltre il cinema. Perché ci sono film che sono più che cinema, e perché ci sono artisti che non vogliono né sbalordirci né commuoverci ma portarci a ricordare i nostri limiti, proprio quelli di tutti. Il suo, come quello dei grandi registi del passato, è un cinema che constata e ci chiede di constatare. E che giustamente esige dallo spettatore che sappia alzarsi al livello del suo discorso e della sua espressione. Non più di questo, ma è il massimo. E andare a cercare il pelo nell’uovo sarebbe, di fronte a questo, più che irrispettoso ridicolo.

(Goffredo Fofi, Il Sole 24 ore – Domenica 28 ottobre 2012)
 

sabato 20 ottobre 2012

Cielo rojo




Sola sin tu cariño
Voy caminando
Voy caminando
Y no se que hacer

Ni el cielo me contesta
Cuando pregunto por ti mujer

Mientras yo estoy dormido
Sueño que vamos
Los dos muy juntos
A un cielo azul

Pero cuando despierto
El cielo rojo me faltas tú
Deja que yo te busque y si te encuentro
Y si te encuentro vuelve otra vez
Olvida lo pasado
Ya no te acuerdes de aquel ayer

martedì 16 ottobre 2012

The Real bears




Non poteva mancare in questo blog!

Vivo en un país libre



Vivo en un país libre
Cual solamente puede ser libre
En esta tierra, en este instante
Y soy feliz porque soy gigante.
Amo a una mujer clara
Que amo y me ama
Sin pedir nada
-o casi nada,
Que no es lo mismo
Pero es igual-.

Y si esto fuera poco,
Tengo mis cantos
Que poco a poco
Muelo y rehago
Habitando el tiempo,
Como le cuadra
A un hombre despierto.
Soy feliz,
Soy un hombre feliz,
Y quiero que me perdonen
Por este día
Los muertos de mi felicidad.

(Silvio Rodriguez)

domenica 14 ottobre 2012

Cristina Branco




Un'altra canzone lagnosa, ma terribilmente sensuale.
Magia del fado?



O meu amor
Tem um jeito manso que é só seu
E que me deixa louca
Quando me beija a boca
A minha pele inteira fica arrepiada
E me beija com calma e fundo
Até minha alma se sentir beijada, ai

O meu amor
Tem um jeito manso que é só seu
Que rouba os meus sentidos
Viola os meus ouvidos
Com tantos segredos lindos e indecentes
Depois brinca comigo
Ri do meu umbigo
E me crava os dentes, ai

Eu sou sua menina, viu?
E ele é o meu rapaz
Meu corpo é testemunha
Do bem que ele me faz

O meu amor
Tem um jeito manso que é só seu
De me deixar maluca
Quando me roça a nuca
E quase me machuca com a barba malfeita
E de pousar as coxas entre as minhas coxas
Quando ele se deita, ai

O meu amor
Tem um jeito manso que é só seu
De me fazer rodeios
De me beijar os seios
Me beijar o ventre
E me deixar em brasa
Desfruta do meu corpo
Como se o meu corpo fosse a sua casa, ai

Eu sou sua menina, viu?
E ele é o meu rapaz
Meu corpo é testemunha
Do bem que ele me faz

Spinoza



Spinoza nacque nella prospera città di Amsterdam nel 1632 al culmine dell'epoca d'oro olandese. Quello stesso anno, a quattro passi dalla casa degli Spinoza, un Rembrandt van Rijn ventitreenne stava dipengendo La Lezione di anatomia del dottor Tulp, il quadro che l'avrebbe reso famoso. Il mecenate di Rembrandt, Costantijn Huygens, statista e poeta, segretario del principe d'Orange e amico di John Donne, era da poco diventato padre di Christiaan, che sarebbe diventato uno dei più celebri astronomi e fisici di tutti i tempi. Cartesio, il filosofo più importante dell'epoca, aveva trentadue anni e abitava anch'egli ad Amsterdam lungo il Prinsengracht, e in quel periodo si preoccupava dell'accoglienza che le nuove idee riguardanti la natura umana avrebbero ricevuto in Olanda e all'estero. Presto avrebbe cominciato ad insegnare algebra al giovane Christiaan Huygens. Il luogo che vide la nascita di Spinoza era di una ricchezza intelletuale e materiale persino eccessiva, addirittura tale - per riprendere l'immagine quanto mai appropriata di Simon Schama - da provocare disagio.

sabato 13 ottobre 2012

Un tunnel sotto l'Arno

Apprendo dalla stampa di un progetto per la costruzione di un tunnel sotterraneo a Firenze. Mi vengono i brividi, inorridisco di fronte al pensiero che noi andremo a «minare» dalle fondamenta quel capolavoro di arte che la storia ci ha lasciato. Minare, sì, perché un tunnel in cui passano treni, anche a bassa velocità, sotto i palazzi storici è sicuramente paragonabile, negli effetti di un possibile incidente, ad una notevole esplosione. Questo prescindendo dalla bontà del progetto e della sua realizzazione, che sarà sicuramente allo «stato dell'arte» ma mai e poi mai potrà essere a rischio zero. Chi sta portando avanti questo progetto? Le FS ed il Comune di Firenze.
L'AD Moretti ed il sindaco Renzi potrebbero passare alla storia come gli artefici di una mirabile opera di ingegneria che al prezzo di sconvolgere la città per mesi e mesi, durante i lavori, produrrà il «rilevante» effetto di far arrivare i treni dieci minuti prima.
Questo è proprio quello che si vuole? I costi? I rischi? Siamo certi che sia così importante l'opera in sé? La sua realizzazione è sicuramente una cosa rilevante per le imprese, i progettisti e quant'altri vi siano coinvolti: ma una volta realizzata migliorerà di tanto le necessità di mobilità della maggioranza degli italiani? Di quelli che quando salgono su un treno si preoccupano per prima cosa di vedere quale sia la prima porta utile «non guasta» da utilizzare per la discesa. Non è raro in un convoglio trovare due, tre, quattro porte guaste.
La costruzione della stazione sotterranea di sei piani cambierà le cose? Non credo proprio, e ribadisco il mio pensiero: inorridisco di fronte alla prospettiva che una società che risparmia sulle manutenzioni delle porte gestisca convogli sotterranei, sotto un gioiello come Firenze (anche se città «piccola e povera» secondo alcuni) e che il sindaco di questa città si preoccupi di «opere compensative» e non del rischio a cui questo progetto espone Firenze ed i fiorentini.
Salvatore Di Stefano
(ex Ferroviere)

martedì 9 ottobre 2012

Dauðalognm




Perché amo le canzoni lagnose.

giovedì 4 ottobre 2012

Chiesa dei Miracoli - È per questo che io amo profondamente il cinema


Ci sono alcuni film che mi sono rimasti dentro.
Così come ci sono luoghi speciali.
Ho la fortuna di vivere vicino ad una di queste meraviglie.
E per i casi della vita mi trovo spesso ultimamente a gustare questa bellezza.
E nonostante la folla malmostosa dei turisti che la affollano durante il giorno
credo che questa piazza e questa chiesa siano proprio stupendi.



Io son sicuro che quelli che l'hanno costruita dopo
si sono messi a guardarla da qui.
Proprio dove sono io.
Sono stati bravissimi.
È un miracolo !
Io brindo a te Chiesa dei Miracoli.



Quello che so è che quelle opere nacquero come nascono queste oggi: da uno stesso sogno collettivo.
Io sono convinto che i vostri figli Bonanni siano come queglli oscuri tagliatori di pietra che hanno inciso i loro capolavori sulle cattedrali che voi onorate, che hanno contribuito a renderle famose con la propria arte e che hanno aiutato il prossimo a credere e a vivere meglio.
Ed è per questo che io amo profondamente il cinema e lo rispetto Bonanni.

lunedì 1 ottobre 2012

Lapide ad ignominia

Oggi ho letto una pessima notizia.

Mi ha colpito non tanto perché io goda nel vedere in prigione vecchietti di 90 anni quanto perché tutto ciò non aiuterà a ricordare.

Negli ultimi anni ho cominciato a festeggiare il 25 aprile salendo a Sant'Anna di Stazzema e rivivendo, per qualche ora, ciò che è successo nell'agosto del '44. Mi sono reso conto che ricordare e non dimenticare è importante. E la cosa più bella che negli anni ho visto e apprezzato è che un gran numero di tedeschi vieni a visitare questo simbolo. E la cosa mi fa sempre più piacere perché mi suggerisce che forse un'Europa stia veramente nascendo. Quando salgo a Sant'Anna mi fermo spesso a leggere le parole di Calamandrei, nella sua famosa lapide ad ignomia, risposta a quanto Kesselring aveva affermato e cioè che non si pentiva affatto di tutto ciò che aveva fatto durante i suoi 18 mesi di comando in Italia. Cliccate sulla foto per leggere a pieno-schermo le parole di Calamandrei.

E se avete 50 minuti a disposizione allora guardate Scalpiccii sotto i Platani di Elisabetta Salvatori e Matteo Ceramelli.